Arturo Maria Licciardi, L’uomo della malga – Racconto in prosa e in versi – pp.27, Palermo 1991, pp.1-27.

L’uomo della malga

L’uomo della malga è l’estremo tentativo
di un uomo che cerca di dare un senso alla
sua vita. Compra una malga nelle valli di
San Candido, si isola da tutti, cerca del-
le ragioni, ma la fuga dal mondo non lo
sottrarrà al lento dileguare dei ricordi,
delle esperienze, dei sogni che svaniran-
no del tutto con la sua morte.

.
Arturo Maria Licciardi

Quando la comprò,
era una vecchia malga abbandonata.
Da anni la vedeva adagiata sul declivio di un prato.
Un tempo, andava lì a passare l’estate.
Le vacche macchiate di nero,
ora come allora, pascolavano.
Le carezzava, e il muggito di un toro, di tanto in tanto, rompeva l’aria,
la lacerava.

 Sorrideva.
Il suo sorriso.
Non lo avrebbero visto,
non gli importava,
non ci pensava.
Toglieva gli scarponi infangati
li lasciava sull’uscio.

 Aveva speso tutti i suoi risparmi in quella malga abbandonata,
i suoi quaderni, i suoi libri, tutto.
Il camino, piccolo e sacro,
riscaldava,
sempre.
per tutto il tempo.
A volte si addormentava sul divano addossato alla finestra,
così, restava per ore.
Era sorpreso del cielo,
si svegliava,
gli bastava guardare,
ne aveva il tempo.
Sempre.
Tutte le volte
un nuovo sguardo.

Non capitava mai che qualcuno
venisse a trovarlo,
specialmente in inverno.
Come un piccolo animale del bosco
entrava in letargo
i rischi erano tanti.
La marmotta!
E un uomo?
Un uomo dorme anche d’estate.
Così pensava.

pag.1

(continua)

 I giorni ombreggiavano le ali dei corvi

Le aquile!

Non fu improbabile

che venisse a trovarlo

un cerbiatto impaurito, proprio ieri

… la paura del lupo!

E la vita amico mio?

La vita?

.

Nelle notti infinite

Usciva dalla malga

le stelle erano le luci

di una grande città,

disabitata.

Non doveva pensarci.

Era difficile

riaddormentarsi

Quando non ci riusciva

s’inoltrava lungo il sentiero

che lo portava al lago.

Guardava le stelle

ancora una volta pensava

che era bello tornare.


pagg.1-2

(continua)

.

La sua malga!

Non era più una malga

ora che i vasi traboccavano di odori

di germogli.

La guardavano tutti da laggiù,

dalle impervie contrade

di una vita sopita

in problematiche sfide.

.

Non gli dispiaceva

di tanto in tanto notare

l’allegra spensieratezza

di una famiglia rumorosa,

magari li sentiva ridere

e la rincorsa era frenata.

Non ci pensava quasi mai

comunque.

.

p.2

(continua)

.

Quando il silenzio saturava

il tempo dei camosci

l’altitudine  gli permetteva

uno sguardo puro e limpido

credeva di essere l’unico sopravvissuto.

Si sedeva là

dove il muschio di una pietra

confortava il morbido

abbandono

la noia era una parola vuota.

Assente.

.

p.2

(continua)



Là da ponente
la cresta dei monti,
ardita al cielo,
fredda nelle sue gelide guglie,
nuda!
pareva confortare il volo,
mentre più a valle,
da dove proveniva il rumore di una cascata,
un cervo, fiero delle sue corna
privo di memoria,
se ne stava
anche lui estasiato
come la prima volta

.

Non c’era bisogno
di guardare lontano.
Proprio alle sue spalle,
da una tana imprevista,
quel giorno sbucò fuori una marmotta
non era strano

che si mettesse a giocare
con i suoi scarponi duri,
da rosicchiare.
Si divertiva.

Il tempo non passava,
se non era per la luce
che, improvvisa,

veniva a mancare.
Certo i camosci,
e pensava subito ad altro.

p.2

(continua)

Non era nato lì
si vedeva
si sentiva.
Non ci pensò più
per quel giorno.
Non pensava quasi mai
a queste cose.
Soltanto la vita
era più bella
il muschio dei tronchi
la stella alpina!
La lasciò lì.
Non la colse.
.
Si scaldò
accanto al cammino
guardò pietoso
 il pezzo di legno
 che di lì a poco
avrebbe visto bruciare;
ma fu solo un attimo
una debolezza.
E già dormiva.
.
Intanto
i camosci
costretti a mezza costa
contornavano di salti
la luna del poeta:
il ricco sonno.…

p.3

(continua)

.

Quel giorno non lo vide sorgere.

Quando fece capolino tra i monti

era più grande del solito

avvolgeva nella sua immagine

coloratissima

tutti i fiorellini del prato.

Non fu la prima volta

né l’ultima,

ma intanto lo perdeva.

Non accadde più

per tanto tempo.

.

p.3

.

(continua)

.

Giù a valle

nella baita più vicina,

lontana e irraggiungibile,

tutti dovevano essere già svegli, da tempo.
.

Uscì come ogni mattina

il prato gli parve morbido e sicuro.

S’inoltrò tra i faggi della scarpata

fu lieto di salutare lo scoiattolo.

Sorrise,

ma lo perse di vista.

Lo scoiattolo, sì.

Ma lui?

Si fermò

pensò di tagliare qualche piccolo ramo

per quelle vite distese in sipari di cielo.

Quando riprese il cammino

il peso della legna da ardere

si fece sentire

pensò che ne era valsa la pena;

posò la legna e

contò di riprenderla

al tramonto.

.

Nessuno l’avrebbe presa.

p.3

(continua)

.

Affrettò il passo.

Il solito posto.

Ma questa volta volle andare oltre

le esperienze fatte non potevano sfuggire

anche quel giorno.

Tornò in tempo.

Non lo seppe mai.

Che strana vita la sua!

Sembrava che non avesse bisogno di nulla.

Amava starsene per ore tra i massi levigati dai ruscelli

le avventure erano tante:

quello che passa e già si perde,

si perde a valle … si perde.

.

Lo aveva lasciato, … aveva rinunciato. Finito.

Gli sfuggiva or il canto del tedesco:

il bel mottetto.

Non parlava mai con nessuno.

a volte si fermava alla vista di un’istrice,

la vedeva passare,

passava oltre.

Quando trovava un manto soffice, verde,

ne odorava il senso

l’appiattiva col suo pesante corpo.

Restava lì.

pp.3-4


(continua)

A volte la nebbia precludeva lo sguardo

lo scrittoio era un misero conforto, una sosta forzata.

In improvvisi squarci il cielo illuminava la casa

la malga quasi vagava

su dorsi di nuvole e crinali molli di brina;

ma impenetrabile,

il grigio velo della noia l’avvolgeva

pure la casa spariva.

Non sapeva che fare.

Pure in città quando ci stava …

la vista gli impediva l’esperienza.

Ma ancora tutto era possibile.

Anche la resa.

Il periodo invernale era duro da sopportare.

Non era tanto la neve che pur ricopriva

in abbondanti sofficità i dati scrutati nella dolce stagione,

quanto il colore grigio del cielo,

il nero ed il violetto dei tramonti

dietro le nuvole minacciose di pioggia.

Umide.

p.4

(continua)

Un pomeriggio

che era più triste del solito

venne a trovarlo un piccolo cerbiatto.

Venne a fermarsi

proprio dinanzi alla sua finestra.

Si fece notare,

e non era distinto in quel fluttuare alterno.

Lo vide impaurito

e pieno di freddo

lo fece entrare.

Ma non era un posto per cervi,

quello.

Se ne accorse subito,

il calore sì, quello era vero;

ma pure il cervo.

Distante,

irragiungibile

in quelle corna fiere, impigliate.

-Chissà quale sarà il tuo destino-

sembrò bisbigliare

e il cervo lo guardava.

Poi

dette segni di insofferenza

lo fece uscire.

Restò ancora qualche istante

sulle esili zampe

ad aspettare,

poi con passo lento

scomparve nella coltre fumosa.

Forse era ancora là

ora che i vetri erano privi di sguardi,

di domande.

Vetri di nebbia.


pp.4-5

(continua)

.

Sembrava impossibile che quegli stessi posti

così teneri e prodighi di toni

in primavera

fossero ora come privi, muti di parole,

di passi,

di foglie.

Aspettare.

Non c’era altro da fare.

E intanto che l’inverno era lungo

bisognava affidarsi alla benevolenza

divina.

Quel cervo capitato lì per caso…

una luce insperata,

ne aveva bisogno.

Sempre.

Qualcosa che fosse presenza,

Il calore,

l’alito selvaggio del bosco,

del lupo.

La vita esposta.

Dei cervi!

Uscì,

ma dopo pochi minuti dovette tornare.

Non era posto per uomini,

quello.

E poi la neve …

.

Quando rientrò nella malga

gli parve un luogo diverso,

abitato.

.p.5

(continua)

Le nuvole, che ora diradavano lontane

si confondevano con la nera volta del cielo.

Attese ancora un po’,

poi, annoiato per la lunga attesa

si addormentò.

La monotonia dei giorni

non lasciava prevedere nulla di buono

la tristezza ormai saturava l’ambiente.

L’imponderabile sembrava compiersi da un momento all’altro.

Si era trovato in momenti

ben più difficili di quello

ma il lungo aspettare,

questa volta, era diventato insopportabile,

quasi irreale.

Pensò che forse

sarebbe stato meglio tornare in città,

arrendersi all’evidenza di una vita impossibile.

Decise di fuggire l’inverno,

il freddo e la tristezza del lunghissimi giorni.

Altre volte lo aveva deciso,

ma poi era rimasto.

Con questi pensieri si addormentò,

la notte fu breve.

Dietro quelle palpebre socchiuse

sentì che qualcosa di nuovo era successo.

Una luce accecante gli impediva

il consueto dormiveglia,

ora che gli occhi erano aperti

ma lontani e irraggiungibili

quasi non si accorgeva che il Sole

accecava nel suo candore di neve.

pp.5-6

(continua)

.

La struggente malinconia di quei monti sottratti alla vista per così lungo tempo era ora piena. La neve innanzi tutto. Tanta! Si alzò improvvisamente come di chi ha perso qualcosa. La sorpresa di trovarsi lì. La vita! Pensò che doveva sbrigarsi, non c’era tempo da perdere. Forse tra poco tutto poteva sfuggirgli per sempre. Quando tentò di aprire la porta si ricordò delle innumerevoli volte che rimase bloccato in casa: quel mezzo metro di neve che gli impediva di uscire lo distolse per un attimo dall’entusiasmo che provoca sempre la natura quando veste la meraviglia di sottigliezze infinite. Si diresse verso la finestra e tirò su i vetri. Nel cadere, quella neve poggiata parve una grazia inaspettata, accetta. L’aria frizzante e fredda penetrò all’istante nell’ambiente appena riscaldato da quei ciocchi di legno ammonticchiati e l’azzurro del cielo era quanto di più bello si potesse ammirare. Lo contornavano a sud le guglie aspre e rigide le crode, mentre più a valle gli abeti, grondanti d’aghi, intirizziti, di tanto in tanto lasciavano cadere qua e là piume spesse di neve immacolata. Il silenzio era il commento più felice. Non c’era suono che potesse esprimere tanto candore. Un po’ più vicino, quasi nel degradare sinuoso degli ovattati pendii punteggiati da macchie verdissime di memoria, risalivano dolcemente, in molli collinette e piani sovrapposti di faggi, Non i camosci! E tale vista valeva di più ora che il cuore appagato volgeva lo sguardo più lungo agli infiniti addii di una fede appena riacquistata. Non si accorse del cerbiatto che, sotto il portico della malga, protetto, lo guardava. Quando lo vide la sua felicità raggiunse il massimo. Era stato lì tutta la notte e questo lo confortava. Non era stato solo. Uscì dalla finestra. Gli scarponi si immersero soffici. Il cervo dilatò gli occhi e con un salto evitò l’imbarazzo di una scena d’amore. Sprofondato nella neve sembrava un’ agile caravell e le tenere corna un impiglio di vele dopo una bufera. Stette lì ad osservarlo e riconobbe le porte dove il giorno prima lo fece entrare. L’uomo prese una pala attaccata alla parete e si mise al lavoro. Dopo pochi minuti liberò l’ingresso, spinse la porta e rientrò in casa. Chiuse dall’interno la finestra, prese il giaccone di montone e uscì di corsa. Sorpreso, il cerbiatto accennò a un dolce ondeggiamento del collo e poi su leggerezza di aliti fumosi mostrò la sua perizia. Le esili gambe sembrarono sicure, tenere nelle molli e fluenti rincorse, e l’uomo l’inseguiva. Come era goffo nella sua divisa rigonfia e nei saltelli cadenzati! Quasi gli sfuggiva, ma il giovane cervo ritornava,. Lo incitava. E poi spariva.
A un tratto sentì uno spro lacerare l’aria. Si ferò di colpo. Dalla bocca gli alitavano vapori leggeri, caldi. Incredulo, fece qualche passo, poi salì su una soffice zolla e guardò.Proprio di fronte ai suoi occhi, ai piedi di un faggio secolare, il giovane cervo ansi mava gli ultimi salti felici. Lo raggiunse. Quando lo guardò, gli occhi erano spalancati, dilatati d’azzurro. Dal fianco fuoriusciva il sangue caldo della breve avventura. E non era prevista.
-Togliti di mezzo, l’abbiamo preso noi –Ma chi è quello lì? -Ehi! dico a te, il cervo è nostro. -Gli si avvicinarono ma l’uomo della malga non li udì. Si chinò. Poggiò la mano sulla ferita e ne sentì fluire lentamente un rivolo caldo, finché la neve si tinse di rosso. -Ehi! ma che fai piangi? -Ehi! -poi rivolto all’amico: -Piange! … Vieni a vedere. L’altro si avvicinò e quando furono abbastanza vicini si accorsero che era l’uomo della malga. Si allontanarono e infine legarono il cervo e lo trascinarono giù, a valle. Il sangue colorò la neve soffice della scarpata, poi, per il freddo, si coagulò anche l’attesa. Sentì il bisogno di rientrare. Il calore dell’ambiente lo avrebbe confortato. Entrò. Richiuse la porta e guardò dalla finestra. Non seppe cosa fare. Pianse. In freddi piatti, guarnito di polenta, l’amico cervo avrebbe finito così la sua giornata.

pp.6-8

(continua)

Sorrise!

E sapeva di sorridere.

Il Sole fletteva ormai le sue lame affilatissime

su prospettive irreali,

di sogno,

e i monti parevano le quinte

di un palcoscenico vuoto.

La giornata che in trionfi di luce

si era levata a ingigantire il mondo

ora dileguava fra cristalli di gelo

e neve, appena rischiarata,

pennellata di acquarelli di luna.

Uscì e tenne le mani in tasca.

Fece due passi sotto il porticato.

Sotto la grondaia,

quasi nascosta, se ne stava una piantina verde.

Prodiga, germogliava le tenere foglie

ed il camino era un pretesto,

una buona occasione da sfruttare.

Si soffermò a guardarla,

smosse la legna e una grande fiamma si levò

alta.

Guardò assorto dietro i vetri

e il candore era apparenza,

ineffabile apparenza.

Pensò che difficilmente si sarebbe lasciato andare.

Poi volle essere serio

e si rimise nelle mani di Dio.

Si addormentò,

e non seppe del buio,

dell’altra faccia.

Nella malga lontana e irraggiungibile

fluttuò una tenue luce,

poi si spense del tutto.

Da sé.

Si sentì russare

e il tempo che passava

era perduto.

Per sempre.

pp.8-9

(continua)

Il nuovo giorno
si annunziò al grido di un corvo.
Lontano.
Si trascinò stancamente sulle gambe,
preparò una bevanda calda,
si sedette e rammendò una calza.
Restò seduto e non fece
assolutamente nulla.
Sentì freddo.
Si alzò e acese il fuoco.
Si accorse che la legna
stava per finire,
uscì e tagliò qualche piccolo ramo;
lo lasciò morire
a poco a poco,
lentamente.


p.9

(continua)

Era rimasto dietro i vetri tutta la notte. Quando sentì ululare i lupi pensò di essere al sicuro, ma un brivido lo fece trasalire per tutto il tempo. Le voci parevano intrecciarsi in misteriosi richiami, inascoltati. Bisognava amarli, i lupi, per capire ciò che si prova. Ma fino a quel punto. No, certamente. Non sarebbe uscito per abbracciare un sogno. E ci pensava intanto finché il più fiero lo scorse in lontananza.
Chissà quante volte si saranno disposti in semicerchio ad aspettarlo. Ed era un pretesto. Quando si dorme non si cattura un lupo. Solo si cerca una ragione: quel bisogno in più e non si trova …
Adesso li vedeva. Uno, due, tre, quattro … e poi più in sù, quasi confusi col fondo tinta dei boschi, gli altri. Ebbe paura, ma fu un attimo. Pensò che tutte le sere sarebbero venuti a trovarlo. Incuriosito si avvicinò ai vetri e pensò ai rischi che dvette correre il cervo, quella notte. Forse lo salvò la nebbia, o il porticato; era rimasto sotto il porticato tutta la notte. Ma a cosa gli servì. Sarebbe morto lo stesso e i lupi non sono tutti cattivi. Già! Non tutti. L’uomo!

pp.9-10

(continua)

Pensò che non si può agguantare Dio

e intanto gli sfuggiva l’urlo,

la bestia.

Latrare alla luna, sì!

Ma chi le sente le voci di un candore infinito,

di niente.

Star dietro i vetri,

giorni, mesi, anni.

Addormentato.

E non si sfugge al destino,

è segnato.

pp.10-11

(continua)

Vide la testa del lupo sulla parete della malga proprio da quella parte che si faceva guardare. Restò con gli occhi spalancati. Atterriti. Glielo avevano suggerito, ma lui niente. Si era opposto. Sempre.

-Ma come può vivere lassù

senza la luce elettrica?-

gli diceva la donna che gli procurava le uova e il latte

in cambio di quei pezzi di legno intagliati:

piccolissimi arnesi da boscaiolo

e fiori coloratissimi

pennellati in vertiginose solitudini,

estatiche

per il gran silenzio dei luoghi.

Guardò il maso sperduto

di quella “trafficante,

e riuscì ad immaginare

che una splendida lampada

lo rischiarava.

Ma non la vedeva.

Il maso, sì.

In deliri di prati sovrapposti,

ricamati di massi e

bianche corolle di neve.

Ma la lampada, no.

Poteva soltanto immaginarla.

La distanza,

che pure era tanta,

diventava smisurata

per la sua debole vista:

i giorni … e non se ne accorgeva.

Andava da Nasia

quando gli uomini erano giù,

a valle.

E questo gli bastava.

Poteva sfuggire a sguardi indiscreti,

non graditi.

Quando aveva il dubbio

che ci fosse qualcuno,

se ne stava acquattato

dietro la casa e poi,

indifferente,

puntuale

mostrava i suoi capolavori.

pp.10-11

(continua)

Non poté scordarsi di quella volta quando, sicuro, come sempre, di trovare Nasia affaccendata, si imbatté nel marito di lei e in un altro uomo che, data la giovane età, doveva essere il figlio o un nipote. Istintivamente fece per tornare indietro. -Ma che fa, va già via?- disse la donna, poi, rivolta al marito, e a bassa voce: -quello lì è proprio matto-. Il giovane guardò incuriosito, mentre l’uomo della malga fece sbollire il rossore, si voltò e protese le mani che contenevano una scatola. -Venga!- disse il marito -si accomodi, beva con me un bicchiere di vino, è buono, sa?- Si sedette, ma non parlò per tutto il tempo. Bevve un sorso di quel vino, non poté farne a meno. Non aveva mai dispiaciuto nessuno, lui. Era fatto così. Prese le provviste, sorrise, quasi si inchinò e scappò via.

Salendo,

arrancava per le borse stracolme

pensò a quell’uomo,

alla sua casa;

ma non riuscì a penetrarne che una scialba sopravvivenza.

Vedeva la donna affaticata dalle mille occupazioni,

impegnata a disfare i letti,

a spazzare o a rimestare la polenta

per quando sarebbero arrivati gli altri, l

a sera.

Per un attimo

pensò che la sua vita non avesse senso,

ma fu distratto da un picchio

che gli portò via qualcosa.

Sorrise e mettendo la mano

dinanzi agli occhi

per meglio seguirne il volo,

lo vide tuffarsi nel fuoco rossastro di uno splendido tramonto,

finché lo perse di vista.

Fissò quell’immagine che stava, ormai,

attenuando i suoi contrasti violacei.

Stette lì

tutto il tempo.

Fin quando i colori persero la luce,

era già notte.

E non si ferma mai il lento degradar del buio,

l’attenuazione dei contrasti,

la lenta agonia.

pp.11-12

(continua)

Rientrò nella malga,

posò le borse in un angolo

sotto la scansia di legno

riaccese la candela.

Una notte stellata! Senza luna.

Lo affascinava, l’atteriva.

Uscì fuori e guardò a lungo.

Il picchio, il maso e l’uomo del vino.

Com’era piccolo il cuore! E grande! Da farsi tutto nero.

Non c’erano i lupi, quella sera.

Già la Luna! E non sempre si vede,

non sempre si sente il lamento di un cervo

a contrastare il gorgoglio d’una sorgente.

Si lasciò andare a quell’estatica inclusione,

si sentì compresso,

schiacciato dalla trasparenza ineluttabile di quel buio stellato,

tempestato,

esploso.

Sentì un fruscio tra i rami del faggio più vicino

la differenza gli fece capire che il sonno era finito.

La parte più vera d’un uomo.

Rivolse una preghiera al dio dell’universo,

gli sembrò di comprenderlo,

di comprendersi.

Giustificò tutte le azioni e la miseria

di città lontane, perdute, distanziate.

Non ne era fuori per questo.

La grande città lo contemplava, l’assorbiva.

La Luna che manca è una fortuna insperata.

C’è più chiarezza senza la Luna.

Puoi vedere dentro, nel pozzo. E non ti sbagli. Non c’è.

L’uomo della malga,

quella sera, non seppe trovare le parole,

non poteva.

Le trovò, per lui, una voce lontanissima,

perduta nei silenzi,

sprofondata in liquami obliati di memoria. E l’eco appena giunta

si infrangeva sul sipario,

ovattato dei monti contornati di pietosi abbracci.

pp.12-13

(continua)

.

– Uuuuu … uh, uuuuu … uh- Qualcuno, forse, si era perduto. Restò in ascolto ad intervalli uguali, la voce si udì per tutto il tempo. Poi l’incubo dell’ansiosa ricerca si attenuò con le prime luci dell’aurora. Quella mattina c’erano più uccellini del solito. Svolazzavano divertiti proprio sull’uscio della malga. E il Sole riversava il suo tiepido bagaglio di luce in striscioline di panni colorati, strappati da macchie verdi di cipressi e nevi rafferme, là dove il tepore non arriva e la luce ha sempre fretta. I prati, invece, rinati d’erba e fiorellini nuovi, sottili, lievi, parevano soavi muschi, mughetti e doni divini. Se ne stavano soli lì, e vibravano delle ali convulse, dell’abbraccio dei bruchi. Lo contenevano. E perdeva sempre qualcosa, qualcuno, l’uomo e i suoi passi distratti, differiti. Quando uscì si sentì subito a suo agio. Quella malga era davvero bella. Una cresta impetuosa di monti la comprimeva nei suoi fittissimi boschi di aceri e betulle e un declivio improvviso la proiettava nel vuoto di valli lontane, abitate. Dal verde intenso di quelle purissime foglie fuoriuscivano le guglie strapiombanti di quinte sovrapposte di vette che nei giorni di tempesta mettevano paura, rimpicciolivano il cuore. Dopo l’ultima curva non la vide più. Si inerpicò faticosamente su un pendio ripido come uno scivolo. Tante volte dovette tornare indietro ma, ne valeva sempre la pena. Quella volta raggiunse il punto più alto: il valico. Si voltò dalla parte della sua malga, ma non la vide. Non poté più cancellare quell’assenza infinita: la prospettiva diversa! Si sedette e si estasiò della parte conosciuta, amata. Fu il pensiero del lupo a farlo tornare. Era già tardi e quelle gole buie non erano affatto rassicuranti. Quando raggiunse la sua malga era già notte. Era proprio da quella parte che i lupi si erano fatti vedere l’ultima volta. Proseguì col cuore in gola, guardingo; la malga, a pochi metri, era completamente buia. Stava per imboccare l’ultimo pendio quando intravide i lupi, la luna piena e quel cervo che lo venne a trovare. Restò impietrito. Una luce rossastra proveniente dalla finestra che guardava, tenue in quei ciocchi di legno consumati, faceva intravedere la sagoma d’un uomo. Trasalì. Il sangue gli si gelò. Poi, a piccoli passi si avvicinò alla finestra, la toccò, sfiorò i vetri con la punta del naso. Ed era il muso del lupo.

pp. 13-14

(continua)

.

Sì, era il muso del lupo;
si voltò di scatto
mostrò le zanne affilatissime al branco che gli stava intorno.
Il profilo era perfetto.
Poi si dispose al canto,
diede la giusta intonazione:
ululò forte,
l’uomo alla finestra venne assorbito, inghiottito.
Salì sul porticato, spinse la porta
vide la strada del suo quartiere,
bagnata, appena rischiarata da un lampione.
L’unico rimasto.
Udì un frastuono cupo,
come di un enorme ingranaggio.
Non riuscì a capire.
E poi,

non gli importava.
Sì sentì un guerriero disarmato.
Cercò conforto
fra le braccia di una donna che si trovava lì, per caso,
proprio lì, a risparmiargli la fatica.
[…].
Fuori intanto i pugnali della notte
facevano strage di innocenti
La strofa perdeva il suo tempo
tra la luna e la collina.
lontana.
Fuori città.
Immersa tra flussi umani di petrolio.
Nel mentre la donna lo accarezzava,
dalla velina del balcone, guardava le case,
nere di fumo, intossicate, tutte imbrattate,
sporche di preghiere e buchi.
Sentì la testa scoppiargli
[…],
uscì lasciando [… la donna …].
Scese le scale sudicie e buie
uscì affannato in strada.
Non c’era nessuno,
aveva smesso di piovere
[…].
Prese una lattina di coca
la tirò, mandando in frantumi i vetri di una finestra.
Quando rientrò in se stesso
le esperienze non servirono a nulla.
La rupe,
levigata dagli anni
gli donò un appoggio, e finalmente
eretto sulle ossa tramortite
credette di guardare il lago.
Si può descrivere il silenzio?
Pungere l’aria come un insetto?
Soffocare la memoria impollinata?
Basterebbe calarsi a picco,
suicidarsi, se non fosse per il tonfo sordo, sconosciuto.
Il silenzio è quest’imbroglio di parole,
le grandi scuole,
gli universi letterari. E non c’è risposta da dare.
Anche il lago è una finzione.
Il lago è melma.
Se non fosse per l’acqua e il Sole e il verde dei boschi.
Ma quel che fu certo … che ebbe paura.
Per un attimo, pensò che avrebbe potuto vivere ancora,
sempre.
Fin da ragazzo aveva pensato che a questo.
La sua vita non era stata che un continuo staccarsi dalle cose,
dai giorni.
L’esperienza?
Perduta in ossari di viste.
Consumata.

.

pp. 14-17

.

(continua)

.

E ora

non gli restava che questo lago.

Quieto come un’idea.

Non poteva più tornare indietro.

Si era avanzato tanto di luce ed anni

che la sua malga era un luogo disabitato.

Si calò in quell’acqua gelida

come un granellino di sabbia.

Ebbe un brivido più grande di lui.

Quando si depositò sul fondo

era già morto.

Così credettero tutti.

Stette zitto,

come avrebbe potuto! Non parla un granellino di sabbia.

Quando finalmente si decise

brillò come una lucciola. Parlò.

E non era apparenza. Si vedeva.

Proprio sul fondo di quel lago, a notte,

ancora oggi la puoi vedere, si può sentire la voce.

-Ragazzi, oggi faremo una gita in fondo al lago-

I ragazzi lo guardarono, e pensarono che fosse matto.

-Credette che io sia matto, non è vero?

Simone dimmi! Credi che il tuo maestro sia matto, non è vero?

Il ragazzo si coprì il viso, ridendo.

-E io invece ti dico che si può-

Stefania sorrise e fece una smorfia col viso.

Sorrisero tutti rumorosamente.

-In fondo al lago c’è una piccola luce che aspetta-

I ragazzi erano incuriositi,

ma al tempo stesso increduli.

E come avrebbero potuto credergli.

-Raccontaci la storia della piccola luce in fondo al lago- dissero tutti.

-Essa ora dorme- e fece segno di stare zitti.

-E’ così che s’avvera un sogno!- …

.

p.17

.

(continua)

.

I ragazzi erano tutti attenti, presi da quel mistero – Quanti di voi pensano che voglia prendervi in giro?- Nessuno rispose, e lui attese come se qualcuno di loro di lì a poco avrebbe parlato. -Avanti!- fece Alberto – cosa devi dirci?- -Non è facile come sembra, e poi non puoi mettermi paura, cosa credi! E’ come una magia!- Si volse e andò verso la finestra. Si vedevano le onde del mare infrangersi in spruzzi altissimi, poi si girò verso gli alunni che ormai stavano sulle spine. Tutti cercarono di mostrare qualcosa. -Voi avete un grande tesoro; nascosto! Se ve lo chiedessi sono certo che sapreste rispondermi- I ragazzi stettero tutti zitti, non parlò nessuno. Ma nessuno ancora capiva di cosa parlasse il loro maestro. Li vide attenti, rapiti. -Ecco, se guardate bene dentro i vostri occhi, proprio sul fondo melmoso del ricordo c’è qualcosa che vorreste interrogare. Non rispondete? -Qualcuno pensò che il maestro fosse diventato proprio matto. -No, non mi guardate così … è nei vostri occhi, voi lo nascondete.- Poi con sempre maggiore convinzione -Perdonatemi, forse qualcuno … ma sì, qualcuno di voi capirà che vi sto parlando di me. Di me … capite?- Nessuno gli rispose, ma tutti lo guardavano. Aspettavano. -E cosa potrei insegnarvi io? Ad avere paura, forse?- I ragazzi avevano già stralunato gli occhi da un pezzo. E non era quel che diceva, ma come lo diceva. -Io ho capito quello che vuoi dire- fece Alberto -tu vuoi dire che noi possiamo riuscire a vedere con la fantasia cose che non esistono- -Esistono invece! Esiste quest’emozione che ci lega, e il lago è lì, guardate!- ed indicò una parte dell’aula. -Ecco, vedete quella piccola luce?- -No, io non posso vedere il tuo lago, però vedo i bianchi gabbiani in montagne di panna e le barche sono frutti canditi- – Bravo Alberto!- gridarono i compagni, ridendo felici. Il maestro si avvicinò e gli fece una carezza. Alberto divenne rosso come una ciliegia. Candita, naturalmente. -Anch’io ho qualcosa da dire, è da tanto tempo che la voglio dire, ecco!- e i compagni sorridevano divertiti -ecco penso che ci sono due vite, una lassù e una quaggiù, ma sono in fondo la stessa vita, quella di tutti i giorni- Quando Simone finì di parlare, Erika si alzò -Mi piace quello che hai detto- e il maestro assentì -Bravo Simone! Sì! è molto bello!- Tutti, ora, volevano parlare ed il maestro li guardava. Ricordò quello che aveva detto ai suoi alunni, e, per un attimo, pensò che li aveva esposti a un pericolo. Aveva fatto bene a fuggire dal mondo, a lasciarli in pace. -Non a tutti è dato di vederla- -Certo!- fece Stefania con voce convinta. -Come fai ad essere così sicura?- ribatté il maestro, ma la ragazza l’interruppe -Anch’io, come te, passo la mia vita a cercare qualcosa che non si può raggiungere. Lo hai detto tu stesso, l’altro giorno, quando ci parlavi della luce in fondo al lago. Che ti credi?! Io intendo quello che vuoi dire. Queste cose, come hai detto tu, non si imparano. Ce le hai dentro da quando sei nato. Non si apprendono- -Come vorrei essere sicuro di ciò- -Perché, forse non sei più convinto di ciò che hai detto?- -Non è questo … voglio soltanto dirti che ti amo – gli occhi gli si arrossarono e si riempirono di lagrime. -Ma che fai? Piangi?- e Stefania portò una mano alla bocca, imbarazzata. Se l’avesse udito la mamma, chissà cosa avrebbe pensato del maestro. -Anch’io ti voglio bene, ma … Sandro ride, e anche Giuseppe e Francesco- -Lasciali ridere! Sono felici, non vedi?-

pp.17-20

.

(continua)

.

Ricordava perfettamente

il momento in cui lasciò la sua città.

I residui legami con la gente, e

ora guardava le rughe delle sue mani.

Era già vecchio.

Quando si diventa altro,

non si comprende,

non si colora una vita.

Era l’unico suo conforto.

Rimanere fedele a se stesso.

Non farsi abbindolare

dai lacci di una credenza

e men che mai dalle lusinghe dell’amore.

-Grazie, mio Dio- diceva spesso,

e in fondo non ci credeva.

Era l’abitudine.

La conta interminabile dei Santi.

Ed i lumini colorati,

belli a vedersi,

come preghiere apprese.

L’amore per gli altri,

acqua passata.

Non c’è,

non ci sono gli altri.

Non c’è il mondo,

non c’è Dio,

non si impara Dio!

Si vive, solo si vive.

Così pensava.

.
p.20

(continua)

.

E intanto i passi si allungavano, pure i camosci e gli impala. Li rincorreva e il Sole durava, contornava le vette fino a notte tarda … come S. Candido! Non si può raccontare. La ferrovia sorpassa in confini di valli molli e generose le nere rotaie degli addii, e le pensioni medie confortano gli amanti prossimi a venire. Anche lui, un tempo! E non si può fermare. Sfugge alla presa più sicura. Anche oggi, e non sa cosa l’aspetta. Ma S. Candido è più basso. S. Candido è diverso ora che a fondo valle l’hanno scordato. Tenne gli occhi bassi, guardò il campanile della chiesa e risalì velocemente a ricalcare orme più pure.

Il tempo passava
i fiori di Maggio, odorosi,
sfioravano la vellutata pelle dei ricordi.
L’assaporano.
A Maggio puoi ancora amare,
germoglia!

Non vedi il funerale sordo
che preme sotto le fogli assottigliate.
Maggio è una tempesta di farfalle
a far la conta ai fiori,
avviluppati steli e tremule zampette,
polvere fine,
gialla di poesia.
E basta alzare lo sguardo
per accorgersi del verde
improvvisato delle macchie:
i boschi,
quando cambiano pelle
su steli bianchi di betulle,
sottili e fruscianti.
L’un l’altro
avvinti,
intersecati in intrecci di note,
soffiate,
inghippate in impigli di corna e cielo.

Campanellino d’oro
campana d’argento, suona!
Rincorri quel tempo, ti fermi?
Non è il brivido, forse?
Non canti?
Fammi ascoltare il pianto di Sandy
che aspetta!

Quando gli venne in mente
sbalordì l’attesa,
la consumò.
La rivestì di panni.
Se ne servì. Ma
non fece nulla
per meritarla appieno.
Venne a trovarlo
quando era tutto pronto.
-Allora hai deciso!-
-Sì-
-Non tornerai mai più, è vero?-
-Potremmo rovinarci la vita, Sandy-
Le si accostò e la trasse a sé
come miele e pungiglione d’api.
Gli sembrò che potesse recedere.
La lasciò indenne,
come Dio la fece.
Povera Sandy
dagli occhi di mela,
indurita
dal vento,
dall’acqua,
dallo stesso stupore di sempre.
La lasciò appassire come un fiore strappato,
dimenticato.
E non ne seppe nulla.

.
pp.20-22

(continua)

.

Le parole diradavano come foglie essiccate
si sparpagliavano e l’humus le macerava
di certezze infinite le popolava.
I fiori tardivi, i vermi, l’acqua
non bastavano più.
Non c’erano.
Da quella prospettiva non potevano vedersi.
Era come se un tacito accordo zittisse il desiderio
e quel sogno nuziale diventasse finalmente
realtà.
Gli animaletti del bosco
erano i primi ad avvertirlo.
I rami stirati, limitati.
Un gran da fare a riordinare le tane,
a rifornirle di fortuna.
Non tutti avrebbero visto
il buio fitto
di un’altra stagione.
L’olocausto della terra si compiva
nella sua più perfetta rappresentazione.
Le civette dalle anche stralunate
guardavano gli ultimi quercini
rifugiarsi nei buchi più stretti,
e v’era sempre un becco più lungo
che ne carpisse la vista, la preda.
Infinito, denudato, il corpo si rifugiava
negli occhi del poeta,
ne misurava i passi e le esperienze erano tante.
Guardava le donnole sovrastare i cespugli di more
su posizioni ripetute, statiche.
Si punse, e i rovi seppero della loro pericolosità.
Si difesero e non c’era più tempo.
Sotto le foglie ingiallite,
punteggiate, rattrappite dal Sole
se ne stavano piccoli e smisurati affreschi
di memoria,
un giaciglio d’aquile, un volo
o quel che si pensa,
un misticismo innato, rappreso in lacrimanti
gocce di brina,
un’esperienza persa.
Le ultime certezze sprofondavano, oramai,
nella notte dei tempi e la vita gli sfuggiva
non la coglieva.
Come fiumi incontenibili,
le parole,
si perdevano nell’esterrefatta liquidità
dello sguardo.

pp.22-23

(continua)

.

– Quali parole, e uomini!
Nessuno che io sappia,
neppure gli artisti.
Cosa sarebbero gli artisti
senza l’autunno di queste foglie.

Neanche il consenso più ampio
può togliere la miseria
a un animo ingordo come il mio.
Spero che si capisca.
Una volta per tutte.-

.
La fisicità dell’esperienza
l’assorbiva del tutto.
– Se solo potessi!
Spiccherei il volo
diraderei le nebbie di questo mattino! –

.
La vita riaffiorava ormai
nell’oggettività sardonica
del Cristo.
Lo riportava in terra.
E i chiodi di quella croce alta,
smisurata,
erano irraggiungibili.
Le braccia,
come rami d’occhi e passere
volate via,
contornavano il bosco di betulle
e il bianco dei capelli
non era folta magrezza
né anni impigliati
in reticelle sottili,
ma pudica luminosità,
fulgore.

.
Se ne stette
per tutto il tempo
a cavare un ragno da un buco.
Non trovò di meglio. E, intanto,
il macero d’anni non s’arrestava.
Anche le foglie più dure
cedevano ai silenzi avviluppati di cielo,
essiccate.

Ricordò
d’averle viste nelle vetrine dell’erborista,
emaciate. E non era affar suo.
A quel tempo,
non poteva pensare alla morte.
La morte è un suggello,
come un fiore, quando lo posi o lo dipingi,
per meglio assaporarne il gusto, il profumo più intenso,
vero.
Corse fuori, all’aperto,
e nell’atto di trattenerle scivolò sul terreno umido.

L’odore rassicurante dell’unica cosa rimasta
lo fece sentir bene.
Dal basso, quella pioggia diradata, lenta,
lo mise di buon umore,
anzi fu tale il gusto
che stette a guardarle cadere,
una a una.
Le assorbì.

Quando si riebbe, la pioggia era cessata
del tutto e i rami nudi, scarni di voci e attese,
elisi, parevano estranei alla vita. Morti.
Le parole rimaste
ruzzolarono nel fosso e, infine,
non si udirono più.
Mute, si mostrarono in piccoli ritagli
di corteccia ammuffita: gli unici
segni rimasti.

.

pp.23-24

.
(continua)

.

La malga,
contornata di leggiadre carezze,
incisa,
staccata da quel che restava,
sospesa, eppur piantata
nella roccia più dura
emanava una luce,
intensissima,
come non si vede in nessuna stagione.
Salì sul porticato e spinse la porta
che si aprì, cigolando.
Vide un ambiente
soffice di impenetrabili oscurità,
sonnolento, per il riposo di mezzo,
buio.
Le imposte
nascoste da soffici tendaggi,
non erano quelle di una malga
perché, al di là del marsupiano,
grigi palazzi privi di storia,
come gendarmi,
ne occludevano la vista,
la limitavano.
L’ambiente gli era sconosciuto.
Non riusciva a ricavarlo.
Solo gli parve
che una scialuppa in fondo al mare
la dovesse annegare.
Ma il senso della terra è più grande.
E più grande è la Luna,
quando appare sull’umore mutevole dei pesci.

.

p.24

.

(continua)

.

Si avvicinò allo scrittoio, e nell’atto di guardare si accorse della vanità. I ninnoli, preziosamente avvolti in lunghissimi rotoli di sonno, non avevano nulla da dire, e la polvere, che ne fissava lo sguardo in fotogrammi bui, dimenticati, non aiutava certo a capire.
Le parole, come fiumi, si infiltravano oramai nelle crepe dei secoli, li coloravano, e anche l’autunno di quelle foglie trattenute era nulla al confronto del suo stupore. Un’opinione come un’altra, certo, e perché no, quella dei più; non conta.
Quando non riconosci il figlio, quando non l’ami, quando su ali rosee di farfalla compi l’aurora e ti allontani, non è il crisantemo d’acqua che sboccia, né i timidi boccioli di cristallo. E’ l’anima buona dei morti. Ti conforta.
S. Candido si delineava sicuro nei perimetri di bosco e la stazione era in disuso. Su una panchina, chiusa alle spalle da un WC perfetto l’uomo aspettava. E il viso era coperto, chino. Addormentato.
La palude gli si manifestò in quel grumo d’occhi, infida di limo e fiori, trasversale. Non la guardò, né si stupì del gracidare mesto delle rane. Solo lo contornò d’abbracci, il buio fitto di stelle e lucidi lontani. Gli passarono accanto e non si mosse.
Ikra Kalun non lo salvava. Non l’affidava al canto di una gru, l’inchiostro; quando raggiunse l’osso, muore.
Quando notava la pelle aggrinzita e rossiccia di quei turisti sul Passirio stentava a crederci. E gli uccelletti, come miele, posavano le ali per saperne di più.
Era forse quella l’immortalità che aveva sempre cercato. Se ne convinse. E non c’era altro da fare, perché quanto potesse sfuggire a quei meriggi splendenti di sole, veri, i salici non si erano mossi per tutto il tempo, e gli aceri, severi d’ombre e di frescura, impollinavano l’aria dei misteri più grandi.
Il ponte romano, poi, che dalla chiusa rimbalzava sul masso più duro, ne sopportava il peso.
A un tratto, vide, confusi ai visi lunghi a cilindro, le magliette jeans dei giovanotti, e le signore, punteggiate di soavi lentiggini, portavano sul cap rami d’ambra e felci, come la prima volta.
-A che serve la morte, la vita che resta, che si consuma a poco a poco- Doveva tornare e il tempo non gli bastava per centrare il fianco esposto di un cervo. Lo prese di mira e lo mancò per poco.

.

pp.24-26

(continua)

.

Ridiscese sulle guardinghe rotte ombreggiate d’occhi curiosi e molli

e si confuse al lento agonizzare della gente,

ai glicini,

che avevano dato tutto di sé

e a quei tralicci

colmi d’odori e rose nuove.

Ora,

sulla panchina della stazione,

la morte sembrava volesse correggerne il tiro:

le malefatte del tempo che scorre,

la storia.

Gli astri non avrebbero capito.

Col sorriso di sempre,

misto al vociare convulso della folla,

cieca dei mille volti,

inespressa e muta,

anche la musica s’allontanò:

-Se ci fossero occhi per guardare

stelle da coprire il cielo,

son certo che la morte verrebbe presto-.

Fas Gruber morì il 13 Marzo ’83.

Sulla sua tomba, ricoperta di felci e sterpi,

nascosta,

vanno a posarsi,

di tanto in tanto,

i passeri,

quasi a volergli parlare.

E non c’è gente che distolga lo sguardo,

o bimba.

La malga,

dopo alcuni anni,

dovette cedere al peso di un traliccio che

ne deturpò, per sempre, il ricordo.

Nelle sere d’Agosto,

il gigante risplende in quei lustri di Luna,

umido quanto basta,

sospeso.
.
Fra i dirupi accecati del tempo,

vedi allora,
cavate dagli occhi,
le case,
le culle,
le mille canzoni disperse,
ed è tardi per tutto.
Pure il meglio che hai
se lo prende, di notte,
la Luna,
come soffio d’amore …
che dura.

.

pp.26-27.

.

Fine

.


nota biografica dell’autore Arturo Maria Licciardi

.
nato a Palermo il 20 settembre del 1942
ivi residente e domiciliato in via G.
Sciuti n°6 tel.091/304799

insegnante titolare del ruolo normale
dall’anno scolastico 1966/67, attualmente
in servizio presso il Circolo Didattico
Partanna Mondello di Palermo,

ha conseguito la Laurea in Pedagogia nel
Marzo del 1988 con una tesi su K. Jaspers
dal titolo Il naufragio dell’esistenza,
riportando la votazione di 110/110 e la lode
e il diritto alla pubblicazione, relatore
il preside della Facoltà di Magistero
di Palermo, prof. Gianni Puglisi,

ha scritto centinaia di poesie, due
romanzi e un saggio,

sosterrà nell’autunno di quest’anno
la prova scritta del Concorso alla
Cattedra di Filosofia, Scienze dell’educazione e
Storia,

le Cattedre di Estetica e di Filosofia del Linguaggio,
tramite i loro titolari, hanno chiesto al Ministero della
Pubblica Istruzione il distacco del sottoscritto
dalla sede di titolarità alla Facoltà di Magistero di Palermo
per l’a.s. 1991/92,

Palermo 10 Aprile 1991

.

firmato
Arturo Maria Licciardi

Una risposta a “Arturo Maria Licciardi, L’uomo della malga – Racconto in prosa e in versi – pp.27, Palermo 1991, pp.1-27.”

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