“Occhi di oliva”

Occhi di oliva

mio fratello aveva 3 anni.

Mio fratello era piccolo quanto un mozzicone di sigaretta ma correva come una lepre. Aveva fiato e tanto coraggio, aveva nervi pronti e audaci, raggiungeva la meta con lo stacco di un uccello.

Stasera sembra sorridermi e mi viene in mente con un colpo di nostalgia. È un ricordo che mi reclama a sé attraverso il suono che produce un lamento.

Oggi al telefono mi sono appesa alla tua voce, siamo stati la foglia e il suo profumo.

Il tuo nomignolo era “Occhi di oliva” perché i tuoi occhi sembravano fatti di polpa.

Mamma li aveva concepiti gravida di attesa e li aveva imperlati e orlati di gioia.

Le sue amiche passavano le mani tra i tuoi boccoli neri e chissà quanto ne eri felice. Di meno lo ero io perché avrei potuto restare nascosta dietro il divano senza mai essere vista né chiamata.

“Occhi di oliva” era un amore di bambino che truccava le mie bambole, le spettinava mentre in Africa faceva un caldo terribile, senza stancarsi mai. Io preparavo le pistole di legno per il gioco degli indiani mentre il sole tramontava e sembrava genuflettersi in cielo.

Avevamo tanto di quel tempo per stare insieme, avevamo tempo di ridere, fino allo sfinimento, fino allo schiudersi di una fragilità che non avremmo mai saputo se l’oggi non fosse mai arrivato.

Il meccanismo di volo si è inceppato e adesso mi abbracci con un braccio solo.

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(Lorenza Oi, “Occhi di Oliva”, 21 Gennaio 2022)

Oyan

Oyan era una donna di 28 anni che sbrigava i lavori domestici nella nostra casa. Viveva in Gabon ma era nata in Guinea.

Avevamo stretto un rapporto di complicità, mi raccontava che la donna africana a 28 anni ha un’età avanzata e un giorno mentre un raggio di sole le illumina​ il viso mi confida che il suo seno è ormai invecchiato. “Non ci credo Oyan, sei giovane” La sua risata spezza quel raggio e mostra la sua dentatura perfetta.

La mattina seguente mamma era irritata “mi manca un reggiseno, lo hai preso tu?” Non ero di certo stata io, il mio seno era spuntato appena.

Oyan arriva puntuale come sempre, ai piedi dei sandali con una suola sottilissima, un po’ di polvere sui talloni. Aveva camminato tanto la nostra amica, veniva a piedi dal suo villaggio. Sempre la stessa gonna, la stessa maglietta e le​ treccine perfette.

Mamma le ha chiesto dove fosse il suo reggiseno e lei con un viso misterioso disse di non saperne nulla.

“Oyan, ero così sicura che lo avessi​ preso tu, e ho provato un guizzo di felicità perché avrebbe sostenuto il tuo seno che mi avevi descritto esattamente​ come un fiore appassito.

Hai fatto bene Oyan, te lo dico anche oggi, dopo anni e anni che non ci vediamo, ma tu mi avrai pensato e avrai ancora in mente i giorni trascorsi con noi. Sarai invecchiata, due remi al posto delle braccia, sola o forse con i tuoi figli, dormi con il seno rovesciato al lato del tuo corpo smagrito e avrai un cuore piccolo come un cucciolo di lepre ormai in letargo.

Mi avevi raccontato di essere povera e di avere 3 figli, tutti piccoli, tutti belli, e quando il pomeriggio inoltrato ti vedevano tornare ti​ correvano incontro e si attaccavano alla tua gonna”.

Oyan io​ l’ho​ immaginata spesso di sera con i suoi figli e suo marito mentre apriva il pacchetto di cibo che mamma le donava ogni giorno.

Lei, prima di andare via stirava tutto, poi si aggiustava la maglietta, tirava ben bene la gonna e apriva la porta sul retro. Ci salutava e iniziava a camminare con il suo pacchetto in mano. Non tirava un filo di vento, il sole ancora alto, io ferma sulla porta in attesa che si voltasse ancora. Lei puntualmente lo faceva, un saluto molle per la stanchezza che espandeva come polvere la mia inquietudine d’abbandono.

Era la slacciatura di una carezza, era l’andare via di un corpo a me caro, gli occhi seguivano l’inarcatura della sua schiena e la gonna ondeggiava come la sbavatura di una lumaca. Sempre più lenta, sempre più stanca, una figurina sempre più lontana.

A domani Oyan.

Ogni mattina arrivi fresca come un fiore nell’acqua, da noi fai colazione e nella borsetta ti conservi la Samofta che ti piaceva tanto.

A pranzo la raccogli in mano e spungoli lentamente, è bianca, collosa, farina di mais o manioca impastata all’acqua.

Il tuo viso era di un nero sgargiante e il cibo un soffio di fame, di battiti che volano da tutte le parti.​

Oyan pianse, non aveva ancora rifatto i letti, quando mamma le disse che saremmo andati via per sempre. Era un bel cantiere quello, eravamo con francesi e olandesi, lei nella nostra casa era stata più fortunata delle sue colleghe. Per loro il cibo non era mai stato scelto e​ consegnato​ ​ ma cercato e rimestato nel bidone dell’immondizia. Sopratutto per la signora che lavorava presso la famiglia G.

Oyan pianse senza riuscire a fermarsi, ci chiese di venire in Italia con noi, ci chiese il lavoro per la​ sopravvivenza per i suoi bambini.

Il pomeriggio avevo spostato​ piano le tende spesse di color verdone e avevo visto la cameriera della casa di fronte mentre apriva il bidone per prendere il cibo che aveva nascosto. Non l’ho mai detto a nessuno, nemmeno a mia madre e nessuno l’ha mai scoperta.

Rimetto a posto le cortine , Oyan piange ancora mentre mamma la rassicura che farà di tutto.

Eravamo nel 76 e lei già pensava di cambiare Stato, di cambiare vita. Oggi è un vento comune, a quei tempi avrebbe scrostato via tanta preoccupazione, come buccia amara dal seme.

Oyan è rimasta lì e chissà quanto avrà pianto ancora. Era stata una partenza improvvisa, una decisione di papà. Ci aveva aiutato a preparare le valigie ma lei​ rimase nei suoi precipizi.

Un giorno mi aveva spiegato come si facevano le treccine. Mi aveva raccontato che ci voleva molto tempo, a volte​ giorni di lavoro. I capelli erano importanti perché lì si annodavano gli spiriti, le treccine erano alte o seguivano percorsi e i suoi progenitori schiavi ci avevano nascosto i semi per la sopravvivenza.

Venivano lavorate con la resina degli alberi, era una colla perfetta,​ a mio avviso maleodorante ma lei sorrideva e asseriva di no.

Oyan è rimasta sempre con me, un vero addio non c’è mai stato. Non l’ho nemmeno potuta salutare perché è stata licenziata qualche giorno prima della nostra​ partenza, forse per farla soffrire di meno, ma io sentii su di me, l’ombra di una violenza che mi fece paura.

(Lorenza Oi, Oyan, 29 Dicembre 2021)

Samia, Racconto di Lorenza Oi

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Samia

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Samia era una giovane donna di Bengasi che lavorava alla Gest House della Salini. Ho avuto il piacere d’incontrarla in occasione della Pasqua e con lei ho girato tutta la città. Indossai una gonna al ginocchio e i miei primi tacchi, lei formosa, ridondante e di una simpatia senza eguali.

Ha molte facce il cielo di Bengasi, ha un vuoto che respira e ti chiama, alcuni capiscono l’italiano e storicamente si ricordano di noi con benevolenza.

Samia aveva una grassa risata , ad intermittenza rullava le parole con una velocità impressionante e ascoltarla m’impollinava il cuore.

Ero prossima ai 14 anni e ricordo bene le sue bellissime gambe che si spiegavano come ali fin sul sedere, grosso quanto una mappa siderale.

Sembrava la cameriera del film ” Via col vento” tanto per darvi un’idea.. ed io dalla contentezza spargevo sorrisi ovunque. Lei m’infondeva sicurezza, proteggeva la delicatezza della mia età dandomi consigli sul comportamento che una ragazzina teve tenere.

Non era così facile essere donne ed essere se stesse in quel luogo e vi lascio immaginare tutto l’impegno che ci mettevamo per contrarre il nostro viso a braccetto e a passo svelto in quella città.

Sulla spiaggia nessuna donna poteva fare il bagno con un uomo e i jeans erano poco graditi per il simbolo americano che essi stessi rappresentavano.

Io ricordo che le risate più belle avvenivano in cucina mentre mi raccontava che una donna era bella quando aveva tanta carne addosso. Ballavamo spaziando in qualche metro appena, sulla mensola una radiolina, sul fuoco le pentole borbottavano che era quasi l’orario di pranzo e Samia non voleva smettere di danzare.

Ricorderò la foto di Geddafi in una macelleria, tutto il bene che mi hai voluto, la tua storia, tutto quello che non hai saputo dirmi, la tua arte culinaria con la quale ci tramortivi tutti e quella simpatica saggezza che abitava in te.

A tavola arrivavi decisa:”minesdrone o pasdasciudda?” Tutti sapevamo che avevi cucinato solo la pastasciutta e nessuno osava dire minestrone. E pastasciutta sia cara Samia, nel fragore delle risate e dell’allegria di tutti i commensali!

(Lorenza Oi, Samia, 15 Gennaio 2022)

Piove, Poesia di Lorenza Oi

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Piove in quella parte greve e molliccia che si chiama pianto

Piove e tu non sai contenerlo

all’estremità dove egli stesso volge

in quel vuoto che ti oltrepassa
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Piove dove si ritiene l’infinito

in ciò che ledi come un confine muto

come un pianto antico che ti ritorna in mente
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Piove e gira come un disco piccolo nel cuore di una bambola sola

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(Lorenza Oi, Piove, 28 Dicembre 2021)

Lorenza OI, Lorenza si narra: per me non siete virtuali, siete amici in carne ed ossa.

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Lorenza si narra: per me non siete virtuali, siete amici in carne ed ossa.

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Tanto per chiarire prima di salutarvi..

Ciò che rende un paziente fragile non è il dolore o lo stato della malattia, è sedersi davanti ad un Medico che sin dalla prima visita, ti fa la diagnosi.

Non ti ha ascoltato e soprattutto non ha referti in mano.

Ti spiega che finirai in sala chirurgica, come ti opereranno e tutte le diavolerie che ti faranno.

È irritato, frettoloso e sbrigativo e ti ribadisce anche la sua schiettezza e franchezza.

Ora tanto di cappello se avrà fatto la diagnosi giusta per carità … ma non è rispettoso e deontologico.

Che sia chiaro ciò che a me ha spaventato e destabilizzato psicologicamente è solo questo!

Poi tramite amici approdi da un “luminare” che con tanta umiltà ti dice: “un attimino, procediamo con calma, faremo un percorso insieme”

In 4 step ti porge probabili soluzioni a qualsiasi evenienza, anche la più negativa, intanto al primo step tenta una terapia.

L’approccio che ha usato è mente/corpo e tu lasci lo studio pronta a tutto e se non fosse stato per il Covid gli avresti stretto la mano.

Ora sì che Lorenza affronterà tutto con la serenità necessaria, Lorenza era arrabbiata, sfiduciata perché aveva subito terrorismo psicologico!

Ciao a tutti, ci vedremo presto, ritorno finalmente ai miei impegni.

Grazie a tutti, per avermi coccolata, rassicurata, per me non siete virtuali, siete amici in carne ed ossa. 💗💗💗💗💗Lo penso davvero!

Mi auguro di tornare in perfetta salute. Vi amo!

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(Lorenza OI, Lorenza si narra: per me non siete virtuali, siete amici in carne ed ossa.  6 Dicembre 2021)

M’innesto, Poesia di Lorenza Oi

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M’innesto
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Sul perimetro sbavato di un bianco candido

le mani impastate di una musica leggera

m’innesto nello spazio curvo e delicato

di un perimetro di china

che mi scava d’azzurro.

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(Lorenza Oi, 21 Dicembre 2021, inedito)

Io sarò qui, Poesia di Lorenza Oi ( Estaré aquí, Traduzione di Fernando Senia Battaglia)

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Io sarò qui

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Che si raccolga pure il vento

per dipanarsi fra i miei capelli

sulla nudità di fragili pensieri

le gambe come chiodi

tese al guado della malinconia

non misurino il passo

alle orme che ho lasciato

ho in bocca un fiore

che raggela tutto intorno

Io sarò qui fino a quando

gli alberi non siano arresi alla luce

a quel margine esangue di cielo

Io sarò qui

pari al balbettio dismesso

di una musica che non finisce

e non si arrende

Io sarò qui

Come pelle di un ramo intirizzito

che pur germoglia.

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(Lorenza Oi, Io son qui, 13 Gennaio 2022)

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Un caro ricordo per me la traduzione di Io sarò qui dell’amico Fernando Senia Battaglia
Grazie, ovunque tu sia …

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Estaré aquí

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Que se recoja el viento

Para aclararse entre mi pelo

Sobre la desnudez de los pensamientos frágiles

Las piernas como clavos

Para el vado de la melancolía

No medir el paso

A los pasos que dejé

Tengo una flor en la boca

Que congela todo alrededor

Yo estaré aquí hasta que

Los árboles no se rinden a la luz

A ese margen exangüe de cielo

Estaré aquí.

Igual al balbuceo abandonado

De una música que no termina

Y no se rinde

Estaré aquí.

Como piel de una rama frío

Que brota.

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(Lorenza Oi, Estaré aquí, Traduzione di Fernando Senia Battaglia,13 Gennaio 2022)

Il mio papino e …, Racconto – tratto da “I miei Racconti” -della Poetessa Lorenza Oi

Il mio papino aveva venti anni quando sono nata io, la prima figlia e tanto desiderata.. Il boom economico imperversava ma lui ha pensato bene di lasciare il suo lavoro alla Fiat per recarsi in Africa. Aveva presagito che in Italia ci sarebbero stati problemi e credo che da quel giorno il nostro cammino sia stato sempre più in salita. ” Il mondo sarà dei Cinesi e degli Arabi” ci diceva..”Abbiamo il dovere di dare stabilità alla nostra famiglia, di non far loro mancare nulla”

Ricordo che la nonna gli scriveva lettere piene di lacrime pensando che suo figlio si fosse perduto tra le capanne e gli ” zulù”

In effetti era immerso quasi nella giungla per la realizzazione di una importante raffineria della Salini Costruttori. Imparò presto il Suaili e quando dopo un anno arrivammo noi, dirigeva con tranquillità la sua officina districandosi tra un maccheronico inglese e il Suaili. Aveva capito che i suoi operai avevano bisogno di sentirsi coccolati e amati e lui era diventato quasi uno di loro.

Un giorno si ammalò di malaria e la nostra casa fu invasa di visite. Erano uomini scalzi e di colore che s’inginocchiavano ai piedi del letto e pregavano con le mani giunte, poi si congedavano in silenzio. “Asante Sana Bwana” una nenia cadenzata, intervallata da altre incomprensibili parole. Noi guardavamo attoniti perché lo trattavano come fosse un Santo e conoscendo papà credo che abbia fatto molto anche per le loro famiglie. Lui era per loro una fonte di sussistenza, di formazione lavorativa, era un raggio di sole per i loro figli.

Noi bambini iniziammo a frequentare una scuola privata ed io in prima elementare ho sostenuto gli esami con una commissione straniera. Sotto il banco avevo nascosto i biscotti “Plasmon” che ogni tanto sgranocchiavo dalla paura. ” Che brutto destino ” mi dicevo e intanto cercavo di dimenarmi con la penna sul foglio. Gli orali sono stati un trauma irreversibile, ma ho visto mamma, felice e abbronzata, arrivata lì con il mio fratellino in braccio che guardava entusiasta i professori e credo di aver capito subito che i miei esami erano stati un vero successo. “Fiuuuuu che fortuna che ho avuto … con questi signori così grandi”

Quella pagellina mi è capitata in mano di recente e non potete immaginare l’emozione che ho provato. Sono stata raggiunta subito dal rumore del mare di Dar es Salaam, le lunghe passeggiate sulla spiaggia, le alte maree che tanto scombussolavano l’animo di mia madre, il dolore al braccio a causa di un vaccino e quel dolore forte che mi prende ancora oggi che non sono più lì. Vorrei tornarvi per respirare l’essenza stessa dell’amore, un ricordo che respira nel vuoto e dove mi attacco come fosse riverberato di luce. Penso al mio papà e la sua impresa spettacolare, mamma e quel marinaio insieme per sempre mai capovolti dal mare.

Ho imparato a stringere bene la mano dell’altro, a rispettare un professore, ad amare i miei fratelli Africani, la dignità passa anche dal tuo vestito, se vuoi prega in Chiesa, altrimenti non lo fare o fallo a casa tua, se ti danno un ceffone tu non glielo rendere, ma guarda e passa. Se proprio devi difenderti fallo con tutte le forze che hai. Non mettere mai il tappo ad una bottiglia se c’è un ospite e non versargli mai il vino con la sinistra, assapora il cibo con lui sennò sei un traditore. Se ti porgono un vassoio di paste tu prendine solo una e ringrazia, anche se sei una bambina che se le sta mangiando tutte con gli occhi.

L’amore fiorisce sempre nella sua stessa forma, impara a camminare nel buio, non aver paura, rispetta, rispetta gli anziani, un bambino di colore non è bello perché ha la pelle nera ma perché è semplicemente un bambino. C’è un disordine nel fondo di me, il cielo non l’ho fatto io, c’è un meccanismo di volo che potrebbe sfuggirti di mano ma tu mantieniti forte e ricorda che se scivoli a terra non troverai sempre l’erba. Io appartengo ad un silenzio che non ti so dire, ma tu ed io caro papà, non siamo mai lontani più di un metro.

[Ph scattata in Via dei Bruno a Roma]

Il mio papà si chiamava Oi Salvatore_Ha lavorato in Africa dal 1970 al 2000, Stearling_Astaldi, Salini Costruttori_Impregilo.


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(Lorenza Oi, Il mio papino, 5 Dicembre 2021)

Poesia, tratta da “Un granello di me”, di Lorenza Oi

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Io son di quel che non dice

la parola sfinita

poggiata su pietra ferma

stanca d’arena e posa

s’alza come volo appena

poi cane zoppo

non me lo spiego con una ragione

né domande nella mente

striscia nella solitudine esatta

poi plana di vento

e si arrende

sulle mie ginocchia

allo stremo di una irresistibile cavalcata

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(Lorenza Oi, Poesia tratta da “Un granello di me”, 2015)