Oyan

Oyan era una donna di 28 anni che sbrigava i lavori domestici nella nostra casa. Viveva in Gabon ma era nata in Guinea.

Avevamo stretto un rapporto di complicità, mi raccontava che la donna africana a 28 anni ha un’età avanzata e un giorno mentre un raggio di sole le illumina​ il viso mi confida che il suo seno è ormai invecchiato. “Non ci credo Oyan, sei giovane” La sua risata spezza quel raggio e mostra la sua dentatura perfetta.

La mattina seguente mamma era irritata “mi manca un reggiseno, lo hai preso tu?” Non ero di certo stata io, il mio seno era spuntato appena.

Oyan arriva puntuale come sempre, ai piedi dei sandali con una suola sottilissima, un po’ di polvere sui talloni. Aveva camminato tanto la nostra amica, veniva a piedi dal suo villaggio. Sempre la stessa gonna, la stessa maglietta e le​ treccine perfette.

Mamma le ha chiesto dove fosse il suo reggiseno e lei con un viso misterioso disse di non saperne nulla.

“Oyan, ero così sicura che lo avessi​ preso tu, e ho provato un guizzo di felicità perché avrebbe sostenuto il tuo seno che mi avevi descritto esattamente​ come un fiore appassito.

Hai fatto bene Oyan, te lo dico anche oggi, dopo anni e anni che non ci vediamo, ma tu mi avrai pensato e avrai ancora in mente i giorni trascorsi con noi. Sarai invecchiata, due remi al posto delle braccia, sola o forse con i tuoi figli, dormi con il seno rovesciato al lato del tuo corpo smagrito e avrai un cuore piccolo come un cucciolo di lepre ormai in letargo.

Mi avevi raccontato di essere povera e di avere 3 figli, tutti piccoli, tutti belli, e quando il pomeriggio inoltrato ti vedevano tornare ti​ correvano incontro e si attaccavano alla tua gonna”.

Oyan io​ l’ho​ immaginata spesso di sera con i suoi figli e suo marito mentre apriva il pacchetto di cibo che mamma le donava ogni giorno.

Lei, prima di andare via stirava tutto, poi si aggiustava la maglietta, tirava ben bene la gonna e apriva la porta sul retro. Ci salutava e iniziava a camminare con il suo pacchetto in mano. Non tirava un filo di vento, il sole ancora alto, io ferma sulla porta in attesa che si voltasse ancora. Lei puntualmente lo faceva, un saluto molle per la stanchezza che espandeva come polvere la mia inquietudine d’abbandono.

Era la slacciatura di una carezza, era l’andare via di un corpo a me caro, gli occhi seguivano l’inarcatura della sua schiena e la gonna ondeggiava come la sbavatura di una lumaca. Sempre più lenta, sempre più stanca, una figurina sempre più lontana.

A domani Oyan.

Ogni mattina arrivi fresca come un fiore nell’acqua, da noi fai colazione e nella borsetta ti conservi la Samofta che ti piaceva tanto.

A pranzo la raccogli in mano e spungoli lentamente, è bianca, collosa, farina di mais o manioca impastata all’acqua.

Il tuo viso era di un nero sgargiante e il cibo un soffio di fame, di battiti che volano da tutte le parti.​

Oyan pianse, non aveva ancora rifatto i letti, quando mamma le disse che saremmo andati via per sempre. Era un bel cantiere quello, eravamo con francesi e olandesi, lei nella nostra casa era stata più fortunata delle sue colleghe. Per loro il cibo non era mai stato scelto e​ consegnato​ ​ ma cercato e rimestato nel bidone dell’immondizia. Sopratutto per la signora che lavorava presso la famiglia G.

Oyan pianse senza riuscire a fermarsi, ci chiese di venire in Italia con noi, ci chiese il lavoro per la​ sopravvivenza per i suoi bambini.

Il pomeriggio avevo spostato​ piano le tende spesse di color verdone e avevo visto la cameriera della casa di fronte mentre apriva il bidone per prendere il cibo che aveva nascosto. Non l’ho mai detto a nessuno, nemmeno a mia madre e nessuno l’ha mai scoperta.

Rimetto a posto le cortine , Oyan piange ancora mentre mamma la rassicura che farà di tutto.

Eravamo nel 76 e lei già pensava di cambiare Stato, di cambiare vita. Oggi è un vento comune, a quei tempi avrebbe scrostato via tanta preoccupazione, come buccia amara dal seme.

Oyan è rimasta lì e chissà quanto avrà pianto ancora. Era stata una partenza improvvisa, una decisione di papà. Ci aveva aiutato a preparare le valigie ma lei​ rimase nei suoi precipizi.

Un giorno mi aveva spiegato come si facevano le treccine. Mi aveva raccontato che ci voleva molto tempo, a volte​ giorni di lavoro. I capelli erano importanti perché lì si annodavano gli spiriti, le treccine erano alte o seguivano percorsi e i suoi progenitori schiavi ci avevano nascosto i semi per la sopravvivenza.

Venivano lavorate con la resina degli alberi, era una colla perfetta,​ a mio avviso maleodorante ma lei sorrideva e asseriva di no.

Oyan è rimasta sempre con me, un vero addio non c’è mai stato. Non l’ho nemmeno potuta salutare perché è stata licenziata qualche giorno prima della nostra​ partenza, forse per farla soffrire di meno, ma io sentii su di me, l’ombra di una violenza che mi fece paura.

(Lorenza Oi, Oyan, 29 Dicembre 2021)