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Non narro
la storia dell’uomo,
le date,
il presente,
gli stupidi stracci
dei mille giornali
a contare le morti,
i ritagli
e le note rafferme
dei cento profeti.
Io narro qualcosa
che alberga nel cuore
da sempre.
Il futuro,
la morte protesa
con le ali d’argento
e quel giorno
che vive perenne,
immortale
sugli idoli infranti.
La vita che è fede,
Siddharta,
l’amore
e poi ancora
la radio,
il giornale,
la rabbia
e le mani imbrattate
di nero,
la voglia che manca,
la scuola,
i ragazzi
e quest’anima paga
che giunge alla sera.
Mi sento bene
e questo
è un fatto
solo mio.
Le stelle
brillano di più
stasera.
Stasera
non era previsto
questo letto
d’ospedale
e il mio guardar
proteso.
Questa mia fede
è nuova
anche stasera
e non c’è nulla
che la possa
far mutare
in tiepido abbandono
e men che mai
in ripulsa.
Io sono nuovo,
rigenerato
e per gradi
m’avvio sereno
al sonno.
E so dove si trova
ora che gli occhi
stentano a vedere
e neanche il passo
è più sicuro
come prima.
Dio!
Io ti chiedo
una grazia.
Quell’unica che sai.
Ed hanno dubitato
di Te,
della Fortuna.
Riempi i giorni
di maturi frutti
al nomade del deserto
e vuotagli memoria
dei luoghi aviti.
Offrigli la fresca acqua
che disseta
e soffia alle spalle
del dondolante
dromedario
la dolce brezza
che ristora.
E di palmizi, poi
ritemprane l’attesa:
la lunga sosta.
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(Arturo Maria Licciardi, Il nomade del deserto, 1°, s.d.)