L’ADDIO A MALCESINE, Poesia di Arturo Maria Licciardi

L’ADDIO A MALCESINE

“Addio!”

le sfiorì da quella bocca

“addio!”

E lo portò con sé.

E mentre viaggiava veloce

non c’era punto

o incrocio che bastasse

ai suoi capelli.

Li vide sciogliersi sugli occhi

e pianse.

Ronzavan le mille braccia

d’ombra-cipresso

a far da quinte al mare,

agli inzuppati di pioggia,

agli anni.

“Addio!”

Le sussurrò a un orecchio

lo stridere convulso delle gomme

e le sterzate

parvero abbracci

e mulinelli attenti,

da non lasciarci nulla …

nulla.

Giunta che fu

dalle parti di Lazise

si fermò,

abbandonò il percorso

e si diresse al lago.

Una sirena echeggiò l’aria,

la fretta

e le parve di sognare,

di non essersi mossa,

di non essarci mai stata.

Un uomo le si avvicinò.

Non si parlarono,

restarono lì.

Poi, i contorni della notte,

si confusero ai loro corpi scuri

e non ci fu nulla,

ma proprio nulla

da poter fermare.

Questa volta

non pensò di risalire il monte,

né di raggiungere la casa

in riva al lago.

Corse più veloce la voglia

di ritornare al cuore,

al ventre.

Pensò a suo padre,

all’orologio antico,

a quella casa,

a quella vita persa …

Suo padre! … E non la volle lasciare,

credeva che casa camminasse,

te la porti in collina,

sulle onde del mare,

in vetrina …

E altre case ti stanno alle spalle.

La casa!

La casa di suo padre … abitata!

“Padre!” gli chiese,

“A che ti serve, ora?!”

“Mi serve”

Gli rispose.

“Se potessi cambiare la vita, Edda!”

Il treno dondolava stancamente

nei suoi vagoni sporcati

ed Edda ritornava …

I filari dei pioppi

non c’erano più

né le vette imbiancate

di una purezza dimenticata,

scarna.

I grilli posavano ormai

i fili volanti

dei salti meridiani

e le parole

erano quelle usate,

annoiate parole prive di poesia,

pronte alla fuga …

“Addio!”

E non pensò più ad altro.

(Arturo Maria Licciardi, 1996)