L’ADDIO A MALCESINE
“Addio!”
le sfiorì da quella bocca
“addio!”
E lo portò con sé.
E mentre viaggiava veloce
non c’era punto
o incrocio che bastasse
ai suoi capelli.
Li vide sciogliersi sugli occhi
e pianse.
Ronzavan le mille braccia
d’ombra-cipresso
a far da quinte al mare,
agli inzuppati di pioggia,
agli anni.
“Addio!”
Le sussurrò a un orecchio
lo stridere convulso delle gomme
e le sterzate
parvero abbracci
e mulinelli attenti,
da non lasciarci nulla …
nulla.
Giunta che fu
dalle parti di Lazise
si fermò,
abbandonò il percorso
e si diresse al lago.
Una sirena echeggiò l’aria,
la fretta
e le parve di sognare,
di non essersi mossa,
di non essarci mai stata.
Un uomo le si avvicinò.
Non si parlarono,
restarono lì.
Poi, i contorni della notte,
si confusero ai loro corpi scuri
e non ci fu nulla,
ma proprio nulla
da poter fermare.
Questa volta
non pensò di risalire il monte,
né di raggiungere la casa
in riva al lago.
Corse più veloce la voglia
di ritornare al cuore,
al ventre.
Pensò a suo padre,
all’orologio antico,
a quella casa,
a quella vita persa …
Suo padre! … E non la volle lasciare,
credeva che casa camminasse,
te la porti in collina,
sulle onde del mare,
in vetrina …
E altre case ti stanno alle spalle.
La casa!
La casa di suo padre … abitata!
“Padre!” gli chiese,
“A che ti serve, ora?!”
“Mi serve”
Gli rispose.
“Se potessi cambiare la vita, Edda!”
Il treno dondolava stancamente
nei suoi vagoni sporcati
ed Edda ritornava …
I filari dei pioppi
non c’erano più
né le vette imbiancate
di una purezza dimenticata,
scarna.
I grilli posavano ormai
i fili volanti
dei salti meridiani
e le parole
erano quelle usate,
annoiate parole prive di poesia,
pronte alla fuga …
“Addio!”
E non pensò più ad altro.
(Arturo Maria Licciardi, 1996)